28 gennaio 2006

Polenta e lugànega col scòt.

Fare la polenta è un gesto antico, che scalda il cuore, prima ancora di saziare la fame. La tradizione la vuole cotta sul fuoco vivo, nel paiolo appeso alla catena, sul larìn (il focolare).
A casa della nonna, un tempo, ce n’erano ben tre e quando mamma era piccola la polenta si cucinava proprio così, con mano sicura, come fa la nonnina di questa foto.
Oggi il larìn non c’è più, e neanche la nonna, ma la polenta, gialla, calda, fumante e profumata me la riporta ogni volta.
Per fare una buona polenta occorrono solo poche cose: acqua, farina e sale e un paiolo, meglio se di rame. Il fuoco di legna è sostituito dal fornello e il lungo lavoro di mescolatura può essere svolto dall’apposito attrezzo elettrico. Certo, i puristi diranno che così la polenta si snatura, ma bisogna conciliare tradizione e comodità, non trovate?
Parliamo un attimo degli ingredienti. L’acqua non è un fattore secondario, e in molte città quella che esce dai rubinetti non è un granché. Assodato che non potete scavare un pozzo nel cortile condominiale, vedete se nella cerchia delle vostre conoscenze qualcuno è allacciato ad un acquedotto diverso. Oppure, se fate una gita dove sapete che l’acqua è migliore, portàtene a casa una tanica e usatela subito per polentare! La farina, qui da noi, è sempre e solo gialla, bramata. So bene che altrove le usanze possono essere diverse, ma qui è così e io vi voglio raccontare la “nostra” polenta. E insieme alla polenta, ci mettiamo un bella lugànega e la facciamo “col scòt”, il sugo di polenta.
Oggi cucina mamma, perché io devo scattare le foto. E poi, diciamolo, a lei riesce sempre tutto meglio, chissà perché ... ;-)
Mettete a bollire 2 litri d’acqua, salatela con circa un cucchiaio da minestra colmo di sale grosso, abbassate o addirittura spegnete il fuoco e incominciate a versare a pioggia la farina, mescolando rapidamente con la frusta. Anche qui, i puristi vi diranno che ci vuole il bastone. È vero, ma con la frusta si rischia meno di fare i grumi! Occorreranno, in tutto, circa 7 etti di farina, ma la quantità può variare anche di molto, a seconda della qualità e anche dal risultato che volete ottenere: la polenta “vera” è dura, a me piace un po’ più tenera. Torniamo a noi. Quando avrete versato un po’ di farina, diciamo circa un etto o due, mettete da parte una scodella di questa pappetta liquida e tenetela in caldo. Ora terminate di versare la farina, mescolando sempre molto bene, poi alzate il fuoco facendo attenzione agli schizzi (è una delle cose più ustionanti che conosco) e accendete il motorino del mescolatore. La cottura dovrà durare 40-45 minuti, a fuoco sempre ben sostenuto.
Passiamo alla lugànega, detta anche "storta".
Trattasi di grossa salsiccia, come vedete, nel cui impasto il mitico Maurizio "bechèr" mette solo carne magra di manzo e di maiale, pancetta di maiale, sale e pepe.
Tagliatela a fette piuttosto spesse e ponetela a rosolare a fuoco vivace con 100 grammi abbondanti di burro, ma di quello buono, eh! Piccola digressione, scusate. Se il burro non vi piace, non sostituitelo con l’olio: in questo caso non ci va proprio! Piuttosto fate rosolare la lugànega nel suo stesso grasso. Però con il burro è tutta un’altra cosa, quindi, se non c’è un problema di intolleranza, non negatevi questo piacere.
Torniamo alla Nostra, che nel frattempo si è ben rosolata da ambo le parti. A questo punto versatevi sopra la polentina molle che avevate messo da parte e lasciate sobbollire a fuoco dolce, mescolando delicatamente ogni tanto, finché sarà cotta la polenta. Se dovesse addensarsi troppo, allungate con un goccetto d’acqua, ma di solito non occorre.
Quando il tempo di cottura è trascorso, alzate al massimo il fuoco sotto la polenta: una bella fiammata farà staccare più agevolmente l’impasto dal paiolo. Ora, via: un colpo deciso e capovolgete la pentola scodellando la vostra polenta sul tajér!
Bella, vero?
Copritela con uno strofinaccio (trucco della nonna) e lasciatela riposare un minuto o poco più, poi tagliatela -rigorosamente con il filo, da sotto in su!- e servitela con accanto le fette di luganega e il loro sugo.
Come contorno, verdure di stagione: una semplice insalatina in primavera, o “radicèle” (tarassaco) colte nei prati, buone sia cotte che crude, oppure, in inverno, capùz sofegàdi (cavolo cappuccio cotto in tegame con burro e cipolla) o anche funghi: io vado matta per i chiodini saltati in padella con olio, aglio e prezzemolo.
Ecco tutto. No, veramente c’è ancora una cosa. Se la polenta è venuta a regola d’arte, il “cappello” dovrebbe staccarsi spontaneamente: a me non riesce mai. Se non riesce neanche a voi, lasciate raffreddare la pentola, poi passate un coltello tutto attorno per staccare la crosta (che potete sgranocchiare, se vi piace, oppure sbriciolare per gli uccellini) poi riempite d’acqua e lasciate lì per alcune ore, così la pulizia sarà più facile. Se la pentola è di rame, olio di gomito, paglietta, sale grosso e aceto; se invece è di alluminio omettete l’aceto sennò diventa tutto nero.

Vorrei concludere riportando un breve brano tratto da “Elogio della polenta” di Bartolomeo Zanenga (Ed. Casteldardo – 1970).

… Quello che importa, comunque, è che sia farina buona. Cioè: di granturco maturo, possibilmente coltivato in loco (su terre aride, sassose, fra seicento e ottocento metri di altezza, esposte ovviamente al sole, che danno un prodotto assolutamente scadente per quel che riguarda la quantità ma superlativo in fatto di qualità). Non troppo fresca di raccolto e di macina (chè non indururebbe: “la tira al tendro” –al tenero-, come dicevano i vecchi); non troppo vecchia (indurisce subito: “la tira al dur”). Una farina buona da polenta, insomma, ed è difficile dire quale sia: dipende dai terreni, dall’esposizione, dalle annate, come il vino di classe. … (Omissis) … Per te, lettore inesperto, non è il caso di sottilizzare. Compera, possibilmente al molino, qui intorno, il tuo sacchettino di farina di granturco. Versala secondo i canoni dentro l’acqua bollente, comincia a rimestare e che gli dèi lari te la mandino buona. …


Patt

(La foto in b/n è tratta da “Magnàr bellunese” di A. Caprani – 1985)

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20Commenti:

Anonymous Anonimo ha detto:

'spetta che scosto la luganega (e la tengo per pranzo) e con quella polenta ci faccio colazione. Miaaam! Il mio sarà anche solo un quarto ma sangue veneto non mente.
Bacio

28/01/06, 10:11  
Anonymous Anonimo ha detto:

Eh, no! Non vale! Questo è un attacco bell'e buono ad anni di 'sudismo': non pensavo di poter avere dentro di me, un desiderio così grande di polenta ;O)
Brava Patt: sei quasi garibaldina nella tua capacità di unire l'Italia.
Abbracci stretti.

28/01/06, 10:24  
Anonymous Anonimo ha detto:

Larìn,Foghèr, fogolàr...Polenta bianca, gialla...cammini cammini e i camini cambiano nome :-)
Capùs impossibile trovarlo da altre parti,impossibile.
Non è proprio il cavolo cappuccio, vero? Lo trovi buono nel trevigiano ma nel resto d'Italia non si trova. Non è rotondo, ma affusolato e spesso si confonde con cappuccio...
Fasoi sofegaà...?? Poènta e sopressa?
:-))))

Lorenzo di Pianogrillo

28/01/06, 11:33  
Blogger fiordizucca ha detto:

tra bava e lacrime non capisco piú niente. spettacolare. sigh.
$^_*$

28/01/06, 12:13  
Anonymous Anonimo ha detto:

Da noi il paiolo si chima "aula" e, caso unico, è di ghisa. O meglio, lo era perchè ormai è introvabile.
Il cappello, si chima "rapa" e Kar ne va matta. Io no io...
La "rapa" spalmata di burro o di formaggio molle che il caldo fa liquefare è...
Macchissenefrega dell'inferno!

28/01/06, 12:35  
Blogger Monica Bedana ha detto:

Polenta co la lugànega!!! Profumo di casa mia!!! E di mia nonna che ti fa il lancio della fetta di polenta dritto in grembo perché altrimenti si scotta (infatti quello è il momento in cui ci nascondiamo tutti sotto il tavolo per evitare l'ustione). E' un post meraviglioso, sazia mente e pancia!! Baciotti.

28/01/06, 13:27  
Anonymous Anonimo ha detto:

Ma grazie! Che entusiasmo! :-))) Ragazze, siete carinissime!

Lorenzo: grazie anche a te :-D, ma non fare confusione tra radicchio e cavolo cappuccio! Quando dico capùz (con la z ;-) ) intendo proprio cavolo cappuccio, e ti dirò di più: quello tondo e duro, da inverno! Quanto alla lugànega, non c'entra niente con la soppressa: se da te non si trova, sostituiscila con salsicce fresche, con l'impasto più simile possibile a quello che ho descritto. Buona polenta a te! Mi perdoni anche se ho detto che l'olio qui -ma solo qui- proprio non ci sta? :-)))

Remy: ma non eri a dieta, tu? >:-p

Baci a tutti! :)))

28/01/06, 14:04  
Anonymous Anonimo ha detto:

Nononono nessuna confusione tra "Radicio" e Capus...o Capuz....La luganega poi...niente a che vedere con la sopressa...citavo solo :-)
Ma il capus (almeno nel trevigiano ) non è il cavolo capuccio (stessa famiglia ma due cose diverse).

Ma l'olio può andare bene anche la polenta, provare per credere. Provare , ad esempio, a friggere fette di polenta...Cuocere la sopressa nell'aceto e unire...meraviglia!

:-)

Lorenzo di Pianogrillo

28/01/06, 14:24  
Anonymous Anonimo ha detto:

Lorenzo, dissento: benché trapiantato a Belluno, sono trevisano e ti assicuro che da noi capùs significa solo (cavolo) cappuccio.
Ciao!

28/01/06, 14:43  
Anonymous Anonimo ha detto:

Caro Lorenzo, Alberto lo scribacchino silenzioso, ti conferma che anche a TV il capùs è quel che dico io. :-)
Quanto all'olio, ci credo, anzi lo so che può stare anche con la polenta: è solo in questa tipica ricetta tradizionale che è richiesto esclusivamente l'uso del burro buono. Non temere, anche se non sono un'intenditrice, l'olio d'oliva mi piace, eccome se mi piace! :-)))
Vado a lavorare, sob. ;-)

28/01/06, 14:47  
Anonymous Anonimo ha detto:

Mangiavo spesso a Follina (e mi è capitato anche di comprarlo) un Capùs che non era il classico cavolo cappuccio. Nella zona di Conegliano tutti conoscono il capùs come *questo* al quale mi riferisco. Non si tratta del Classico cavolo cappucio, rotondo, tanto per intenderci ma probabilmente di una specie locale di cui mi sfugge il vero nome. E' allungato, quasi affusolato (e non si tratta certo del mitico Radicio che ben conosco) e più morbido, si usa in insalata pur rimanendo abbastanza "croccante", una delizia. Preciso che in alto Friuli il Capùs è il crauto, quindi può darsi che anche in quella zona abbia un nome diverso.
Stà di fatto che ho cercato a lungo qualcosa di simile al Capùs dell'Alta Marca senza trovarlo. Il cavolo cappuccio è un altra cosa. Forse (credo di capire che sia così) sono entrambi chiamati Capùs e , presumibilmente hanno una qualche parentela.
Il *mio* Capùs si trovava solo in alcuni periodi dell'anno ed era anche abbastanza raro, almeno quello buono.
Chissà se Alberto riesce a trovare una spiegazione.:-)

L.

28/01/06, 15:11  
Anonymous Anonimo ha detto:

Lorenzo, mi sorge il dubbio che quello che hai in mente tu sia quello che in Francia chiamiamo chou cabus. Verde deciso e forma altrettanto decisamente affusolata.
Se ti colleghi col catalogo della Clause o della Vilmorin (sementi) dovrebbe esserci. Se vuoi sperimentarne la coltura...basta dirlo. Al primo giro in là cerco i semi. E' il minimo che poso fare. Sei riuscito a stanare Alberto. Siamo a dir poco meravigliati ! Ciao

28/01/06, 18:25  
Anonymous Anonimo ha detto:

E poteva mancare una polentona come me! Il post giusto per farmi passare un bel weekend!
Mio papà "venessian dea Giudecca" nell'acqua che bolle, prima di aggiungere la farina ci mette anche un filo d'olio d'oliva, non so perchè, ma l'abbiamo sempre fatta così!
Se non avete la salsiccia cosa ne dite di una bella fritturina mista? di pesce naturalmente!

28/01/06, 19:11  
Anonymous Anonimo ha detto:

Lorenzo, guarda qui: http://www.arcoiris.it/shop/images/cuorbue.jpg È questo? Se si, finalmente ho capito! Si, anche questo è un "capuz", fratello di quello tondo. Non so come si chiami in Francia, ma Kat ci dirà se stiamo parlando tutti della stessa cosa. Qui vengono coltivati sia l'uno sia l'altro, ma mentre il cuor di bue (bono, lo adoro in insalata) va consumato subito, quello tondo e duro poteva essere conservato per l'inverno ai tempi in cui i supermercati non c'erano e si mangiava secondo le stagioni. Se desideri sementi, basta dirlo: appena compaiono quelle nuove posso spedirne quante vuoi!
'ciotti
:-)))))

28/01/06, 19:11  
Anonymous Anonimo ha detto:

Ah, Lorenzo, dimenticavo: Follina è appena dall'altra parte della montagna, quindi se ci dovessi tornare ... citofona che facciamo scambi culturali! Cappucci contro olio? ;-)))

28/01/06, 19:15  
Anonymous Anonimo ha detto:

E' lui, il mio capùs...
Proprio quello!!
Cappucci contro olio? VA bene!!

L.

28/01/06, 19:19  
Anonymous Anonimo ha detto:

C'est lui ! E' lui !

28/01/06, 19:29  
Anonymous Anonimo ha detto:

Nella mia famiglia la polenta si faceva aggiungendo un filo d'olio di oliva, neanche io so il perchè, ed usando farina gialla macinata fine possibilmente appena macinata dal mulino e a differenza di come si usa al nord ,da noi si faceva piu morbida, si allargava su una tavola larga dove ci si mangiava intorno tutti insieme. E i condimenti erano spuntature (ovvero puntine di maiale) e salsicce col sugo o in bianco, o cime di rapa ripassate in padella con aglio e olio o con funghi di bosco nel sughetto.....ahhhh che nostalgia!!

01/02/06, 21:40  
Anonymous Anonimo ha detto:

Paese che vai, polenta che trovi. Una cosa, però, non cambia mai: è buona! :-)
Ciao, Lorella, un abbraccio.
=^..^=

02/02/06, 06:34  
Anonymous alberto ha detto:

buongiorno,questo piatto di polenta col scott. sono 50 anni che nn lo mangio e domani voglio provare a farlo....grazie dei suggerimenti. se qualcuno sa se esiste qualche ristorante che lo propone fatemelo sapere grazie.

05/02/22, 16:17  

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